Amo la vita e amo la strada. L’atmosfera che c’è al mattino, presto, quando tutti sono già di fretta ma sono i primi e sanno di avere un vantaggio. Si respira una pace efficiente, particolare, con gli sguardi non proprio assonnati, ma ancora segnati dalla notte breve, da una macchina all’altra con gli scappamenti che buttano vapore insieme a tutto il resto, dal benzinaio, al semaforo, al bar.
Ecco. Amo i bar, tutti i bar che frequento a ore diverse ogni giorno. Presto, vicino al casello dell’autostrada e vicino al benzinaio. Il pieno, poi un caffè, stretto al bancone mentre guardo il culo della Lucia che serve gli altri clienti e si comporta ancora come da giovane quando doveva essere bella davvero. Pago, faccio finta di chiedere lo sconto, mi lamento che il caffè è troppo caldo, che volevo quella pasta che non c’è mai, che la dà a un altro e se lo scopro. E ci sorridiamo, flirtiamo come flirta con tutti, poi parto.
Il bar delle nove e mezza, per il secondo caffè quando accetto l’invito che serve solo a buttare mezz’ora, poco meno, a chiacchierare con fatica e solo la voglia di perderlo riempie un po’ il tempo senza fare quello che forse non piace, forse non serve. Anche lì, la cameriera, il cameriere, qualche battuta, sempre le stesse, nessun flirt, tanta confidenza. Tutto pulito, un colpo di tosse, nessun allarme, confidenza. Uno vicino all’altro, al bancone, alla cassa, stavolta faccio io, ma dai… be’, allora grazie.
Amo tutte le strade anche quando sono rabbioso per la lentezza di qualche tardone che non mette la marcia, che maneggia il cellulare, che non passa, va piano. Amo il rombo del motore che cresce ed esprime tutta la forza, l’energia che sento addosso mentre mi libero dell’intralcio. Amo la vita, raminga e girovaga, intervallata da tappe fisse e da nuovi incontri, da facce solite e sempre uguali o facce nuove da conoscere in un attimo. Stringo tante mani, non abbraccio molto, ma quando incrocio lo sguardo sono intenso, vero, giro la mano e lego il pollice al mio, la porto al petto, sul cuore, insieme a quella dell’altro. Le facce nuove diventano subito amiche, non sono una persona comune, non voglio esserlo, non lo sarò.
Consegne, incontri, riunioni e briefing, parlo molto, ascolto, ragiono. Poi riparto, mangio anche solo, senza esserlo perché il cameriere, la cameriera, il cuoco, il barista, incrociano gli sguardi col mio, si crea cordialità con una gentilezza anche senza chiacchierare o fingere intimità. Mi affeziono ai posti anche quando non ci tornerò e se passa molto tempo mi accorgo delle cose che sono diverse, del personale nuovo o vecchio, cerco lo stesso tavolo se mi sono trovato bene, spero sia cambiato qualcosa quando non è stato così.
Pranzo leggero, riparto dopo un caffè che correggo a seconda dei posti, sambuca o Varnelli, anche vino in certi bar di campagna lontano dalle strade più grandi, coi vecchi che giocano a carte e il parcheggio stretto vicino ad un fosso. Poi la macchina è comoda, ogni anno di più, col sedile che si adatta alla schiena e viceversa, fino al nuovo modello quando tutto ricomincia per trovare nuovi equilibri. Il dolorino della spalla si sposta sotto l’anca, cambia lato, il gomito sta più in alto appoggiato sul bracciolo. Tutte cose di cui ti accorgi dopo molti chilometri, comodità che diventano insopportabili alla quarta, quinta, sesta ora di strada, o spigoli che si rivelano preziosi per lo stesso motivo mentre la strada scivola sotto di te.
Amo anche il ritorno, quando le luci cominciano a brillare nella pioggia o semplicemente perché cala il sole: è più difficile incrociare gli sguardi, ma forse sono le ore che hanno consumato la capacità di vedere e la voglia di guardare. Di giorno non sono tutti eroi come al mattino, di sera sono tutti stanchi e affrettati e vedono solo la strada. Vedo la mia, la strada che amo ed è raro che mi fermi per una sosta o che lo faccia volentieri, ma poi ci sono le telefonate, le deviazioni, gli amici, qualche cliente che crede di esserlo. Un invito su dieci va accettato, un bicchiere, uno spuntino. Spritz, aperitivo, bianchetto, poco che devo guidare, qualche abbraccio in più della media, un po’ di racconti, gli occhi sull’orologio finché non è troppo tardi e non serve, più, guardarci.
O lontano da casa, dove gli alberghi sono sempre gli stessi, gli orari più elastici, le cene fugaci, al bancone quando si può. La cameriera, la receptionist, si scambiano sguardi, intese che non portano a niente, forse sono brave così ed è il loro lavoro, forse sono irresistibile io ma resisto. Forse. Amo anche quelle atmosfere, però, e ritorno, ritorno. Anche quando non dovrei.
Non serve sempre viaggiare, non è il mio lavoro, ne è solo una parte. Ma sono tanti i modi di fare la stessa cosa e quando uno non sa bene che fare, di solito fa le cose di cui è più sicuro. L’esigenza profonda è quella di riempire il tempo con qualcosa che… serve. Qualcosa che va fatto invade il tempo anche quando non è meraviglia. Fa sentire eroi, come al mattino quando gli sparuti fanali si accendono per primi sulle strade. Fa sentire vivi, è questo che che si cerca nel dare importanza a tutto ciò che si fa. Farlo bene, sì, ma essere l’eroe che si sacrifica a farlo è già tanto. Qualcuno lo deve fare, lo faccio io. Meglio che posso, ma lo faccio comunque, un giorno dopo l’altro.
Viaggiare, girare, riempie il mio tempo, mi tiene vivo, in moto, crea possibilità, opportunità, è importante. Però non resisto a essere solo e ho bisogno di soste, di conferme, di qualcuno anche sconosciuto che un giorno dopo l’altro vede le pieghe della mia stanchezza insieme al sorriso della mia energia. E capisce, e mi fa sentire bene. Ho bisogno di questi incontri anche se sono a senso unico, ho bisogno di interagire, di toccare, di guardare, di assaggiare, parlare ascoltare vivere. Ho bisogno di riconoscere, e di conoscere. Non mi posso fermare, non mi fermerò.
Incrocio lo sguardo, sono vicino, stringo la mano, passo la tazzina, pago, appoggio la mano sulla spalla, la stringo alla tua, incrocio un altro sguardo, parlo al telefono, lascio passare, passo io, pago, la tazzina, il piattino, la posata, lo sguardo, la stretta di mano, il manicotto del carburante, il caffè, un altro caffè, aperitivo, cena, camera d’albergo o casa, pago, vado, torno. Sono il paziente zero in almeno quindici posti, ma non mi posso fermare, non voglio.
Perché amo la vita, amo la strada e tutte le persone che in… infetto. Dio, come amo la vita.